Nei Veda, testi risalenti al 2000 a.C. originari dell’India settentrionale, si prescrivono riti sacrificali col fuoco allo scopo di propiziarsi gli dèi. Il fuoco purifica le offerte presentate alle divinità trasformandole in fragranze che sono in grado di nutrirle, con l’auspicio di ottenere condizioni favorevoli nel mondo visibile. La sua capacità intrinseca di trasformare e, quindi, purificare la materia con cui entra in contatto fa del fuoco lo strumento di comunicazione per eccellenza con l’altra dimensione.
Nella tradizione post-vedica del Samkhya, il fuoco compare come uno dei cinque elementi grossolani (maha bhuta) che costituiscono l’essenza di tutte le cose manifeste. Nella cosmologia illustrata da questo darshan, uno dei sei sistemi di pensiero riconosciuti della tradizione filosofica indiana, vengono enumerati (samkhya significa proprio “numero” in sanscrito) i passaggi attraverso i quali il mondo manifesto viene in essere. Possiamo immaginare questa evoluzione come un processo di addensamento, attraverso il quale vibrazioni sottili divengono sostanze palpabili.
I cinque Elementi sono alla base, in diverse proporzioni, delle cose create, compreso il corpo umano. La fisiologia sottile e il funzionamento del corpo energetico sono stati oggetto di studio della tradizione tantrica, che associa tali elementi ai chakra principali. Se nel processo di ontogenesi l’andamento del flusso va dal più sottile al più grossolano, le diverse tecniche di yoga servono per compiere il processo inverso: risalire la corrente fino alla fonte, trascendendo il corpo.

L’elemento fuoco nello yoga
Tra i cinque elementi della tradizione yogica indiana – etere, aria, fuoco, acqua e terra – il fuoco assume una valenza particolare non solo perché si colloca al centro, tra gli elementi più materiali e quelli più leggeri, ma anche per la sua qualità intrinseca che consiste nella capacità di trasformare ciò con cui viene in contatto.
Nella fisiologia sottile del corpo umano, il fuoco è l’elemento che governa il terzo chakra, manipura, associato in particolare alla funzione digestiva e al metabolismo in genere. Fuor di metafora, il cambiamento è possibile se si riesce a bruciare il vecchio e a vedere con chiarezza in che direzione andare. La vista, infatti, è il senso collegato al terzo chakra. La passione e il coraggio, altri elementi indispensabili per portare a termine una trasformazione efficace, rimandano alla sensazione di calore e potenza che un fuoco trasmette.
Lo Yoga è un metodo di trasformazione interiore: qualunque sia il tipo di yoga scelto, l’obiettivo è quello di raggiungere uno stato di coscienza superiore a quello di partenza. A proposito di yoga classico, si parla di ascesi. E’ importante ricordare l’etimologia di questo termine, che deriva dal greco ασκεσις, che significa “esercizio”. Per raggiungere, dunque, lo stato voluto bisogna esercitarsi, allenarsi, faticare. Per svincolarsi bisogna impegnarsi. Da qui, la proliferazione di metodi e tecniche diverse nel corso della storia per portare l’uomo alla “liberazione”, alla “redenzione”, alla “salvezza”, alla “realizzazione”.

Come attivare il potere trasformante del fuoco
Gli Yogasutra di Patanjali ci presentano un metodo in otto step (ashtanga yoga) per arrivare – trasformati – alla meta (il samadhi, nella sua accezione). Nella strategia patanjaliana, c’è una prescrizione (niyama, YS II.32) che rimanda al concetto di sforzo. Si tratta di tapas, l’ardore nella disciplina, che, se viene praticato assiduamente, porta alla perfezione fisico-sensoriale, grazie alla cessazione delle opacità (YS II.43, nella traduzione di F. Squarcini, Einaudi, p. 21). Anche il linguaggio di tale sutra evoca le qualità del fuoco che trasforma, purifica, rafforza, perfeziona…
Quello che Patanjali ci chiede di fare è impegnarci strenuamente per realizzare la nostra natura autentica (ricordiamo che il suo yoga vuole condurci a ritrovare la nostra forma propria, svarupa). Realizzarsi nella vita non significa migliorare il proprio status sociale o aumentare il proprio benessere materiale, come l’ideologia sottesa alla nostra società ci fa credere. Realizzare la propria natura significa smettere di identificarsi con la forma esteriore, con il ruolo ricoperto, coi pensieri condizionati e condizionanti. Non è per niente facile, perché quella forma e quei pensieri sono ormai connaturati in noi. Per questo serve lo sforzo. Dobbiamo fare la fatica di staccarci di dosso la seconda pelle, proprio come fa la crisalide prima di diventare farfalla: una fatica bestiale!
Messa così potrebbe sembrare che fare yoga comporti solo fatica fisica, che l’ascetismo che predica lo yoga classico sia fatto di privazioni e penitenze. In realtà, dietro al discorso di Patanjali c’è una profonda conoscenza dell’animo umano. Se penso alla fatica che fanno molte persone semplicemente a rilassarsi e all’enorme sollievo che provano quando, al termine di una lezione di hatha yoga, ci riescono, toccando stati coscienza che li fanno letteralmente rinascere … Ecco in cosa consiste tapas: rieducarsi a fare qualcosa che è diventato difficile, ma che sarebbe lo stato naturale dell’Essere.

Curiosa di natura e ballerina nei sogni di bambina, con lo yoga ha trovato la sua dimensione ideale, potendo conciliare la sua passione per lo studio con la ricerca della flessibilità corporea. Infatti, all’approfondimento della teoria (si è specializzata con il Master in YogaStudies. Corpo e Meditazione nelle tradizioni dell’Asia dell’Univerità Ca’Foscari di Venezia) ha affiancato la formazione da insegnante di yoga. Si è inoltre diplomata all’Accademia di Raja Yoga di Ananda Assisi, acquisendo e imparando a trasmettere le tecniche meditative insegnate da Paramhansa Yogananda. Continua incessantemente a studiare e a sperimentare; convinta che la meditazione e la pratica della presenza sia la chiave per un’espansione della consapevolezza.
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